Gli anni ’30, poi il periodo della Seconda Guerra Mondiale, sono gli anni in cui la Svizzera, circondata a Nord e Sud da regimi totalitari, si ritraeva su sé stessa, una sorta di ridotto che dal profilo culturale cercava una sua identità per sopravvivere con dignità ed orgoglio d’indipendenza.
È in questo contesto che Ugo Cleis iniziò ad operare quando, alla ricerca della luce del Sud e della cultura mediterranea, si era stabilito definitivamente nel Mendrisiotto nel 1931.
Qui aveva trovato i suoi affetti sposando nel 1934 la maestra Lisa Vela, discendente di Vincenzo Vela, dalla quale ebbe tre figli: Milo, Viria e Daniele.
Originario del piccolo villaggio rurale di Diepflingen, nel Canton Basilea, dov’era nato nel 1903, formatosi artisticamente all’Accademia di arti applicate di Dresda, svolse in Ticino una pittura che trovava i suoi riferimenti in artisti fondamentalmente nazionali di una generazione precedente quali un Giovanni Giacometti o un Cuno Amiet, artisti che ancora si erano nutriti degli esempi alti della pittura francese frequentando, per esempio, Pont-Aven o le accademie parigine.
Egli faceva parte di una generazione che aveva un concetto umile, modesto del mestiere, artisti pronti a cogliere attraverso lo studio ed il lavoro quotidiano le mediazioni artistiche sopra descritte. Non a caso questi riferimenti si individuano puntuali in Ugo Cleis, sia sul piano compositivo che coloristico, si individuano fin nella traccia, nel ductus di certe pennellate, in quelle stesure finali, fresche che sottolineano il disegno sottostante, ma questo sempre nella ricerca di una via personale, di una sintassi stilistica che riflettesse la propria sensibilità.
La scelta dei soggetti viene colta nel mondo immediatamente circostante, nell’ambiente in cui vive, dunque conosce ed interpreta con estrema onestà e fede.
Ugo Cleis diventò così uno dei principali cantori del paesaggio del Mendrisiotto, percorso per oltre mezzo secolo col cavalletto sotto braccio. Lo ha svolto con l’occhio incantato di chi è venuto da lontano, offrendoci visioni poetiche inedite, suggestive. In casa e nel suo giardino un primaverile mazzo di fiori o una ciotola di frutti offrivano i felici pretesti per nature morte o, usando un termine storico, nature in posa.
Oggetto di questa mostra al Municipio di Bioggio è forse l’aspetto più intimistico di questo mondo, i suoi numerosi autoritratti ed i ritratti dei familiari. Soggetti di per sé simili sono concettualmente distanti: se gli autoritratti rappresentano l’esigenza di scavare dentro di sé, di cogliere le tracce lasciate sul volto dallo scorrere del tempo, i cambiamenti interiori dettati dall’esperienza, esigendo una pennellata distaccata e talora persino impietosa, i ritratti delle persone care – come le chiamava Grubicy de Dragon - sono approcci affettivi in cui tutto, compreso il tocco pittorico, vibra nella luce di un sentimento delicato. Così i motivi decorativi di un vestito della moglie, o la corona vegetale con cui uno dei figli era rientrato da una scorribanda ludica, diventano il pretesto di descrizioni sensibili, commoventi ancora, visti oggi a distanza di decenni.
Accanto alla pittura, Ugo Cleis, artista completo, rese gli stessi soggetti anche con altri medium artistici. Fu autore di opere monumentali come gli affreschi nel palazzo delle poste di Lugano, ma anche di rari mosaici di piccolo formato che ancora ci sanno sorprendere per un approccio di grande cura e qualità… poi la straordinaria attività silografica che gli diede notorietà nazionale, anche perché seppe rinnovare attraverso una resa fresca e leggera una tecnica antica, mediando i tagli incisivi della silografia nordica moderna, di matrice espressionista con la vibratilità luministica mediterranea.
Sono lezioni preziose che mostre come questa ci permettono di ripercorrere, in alcuni casi di riscoprire. Anche in questo senso, Ugo Cleis ha saputo piantare dei germogli che ancora crescono e di cui l’opera dei figli Milo e Daniele sono una testimonianza vivida.
Paolo Blendinger
Torricella 26 maggio 2015